Intervista a Donatella Moica, fondatrice di Macana Maldives
Una vita in movimento fatta di grandi passioni da raccontare, dalla natura alla letteratura: Intervista a Donatella Moica, socia fondatrice di Macana Maldives.
Affascinata da tutti i mondi lontani e drogata di conoscenza, Donatella, giovane studentessa universitaria, parte per le Maldive, con un paio di pinne rosa Mares nello zaino, una caterva di libri e una voglia smisurata di incontrare tutte quelle creature viste nei documentari marini: in realtà non aveva la più pallida idea di cosa l’aspettasse! Era il lontano 1993.
Ciao Donatella, l’incipit della tua storia maldiviana è tutto un programma, ce lo racconti meglio?
Sin da bambina seguivo i documentari scientifici che parlavano di ambienti naturali marini e terrestri, mi affascinava l’etologia soprattutto. Ma in generale mi interessa tutto ciò che consente di comprendere i fenomeni naturali e le relazioni tra gli organismi, comprese quelle tra gli uomini. Per non parlare di tutti i libri su luoghi lontani che avevo letto e che mi sembravano così esotici e affascinanti da adolescente. Avevo già viaggiato molto, trascorso un anno in Australia e capito che i viaggi e il turismo erano nel mio DNA quando sono partita per le Maldive. Non avevo idea di cosa mi aspettasse veramente ma la realtà è stata ben più fantastica di un romanzo.
Romanzi che poi hai scritto, ma ci torniamo dopo. Ti ricordi la tua prima immersione alle Maldive?
Certo che la ricordo, c’era una corrente pazzesca, erano tempi in cui le “washing machine” delle immersioni maldiviane erano famose. Credo di aver pensato che non ce l’avrei mai fatta a fare la guida in quel mare, invece le cose sono andate diversamente e sono rimasta a bordo per quindici anni. Ma il primo ricordo fortissimo del mare maldiviano è legato a uno snorkeling fatto fuori dal vecchio porto, sono passati 28 anni, ormai. Doveva essere il mio primo o il secondo giorno ed ero ancora sotto shock da tutte le novità. Intorno a Malé non c’era la quantità di barche che c’è ora e non era impossibile nuotare. Ricordo che un barchino a vela portato da due ragazzini, che avranno avuto sì e no dieci anni, si avvicinò a noi chiedendo cosa stessimo facendo. Noi volevamo vedere i pesci, loro intendevano pescarli, il ragazzo più grande pensò che potevamo fare un accordo tra noi. Non l’abbiamo fatto, ovviamente. Ma i ragazzini non se la presero. Nuotammo fuori dal porto con maschera e pinne e subito, ma proprio subito all’imboccatura, fummo avvolti da un banco di pesci fucilieri. Una nube gigantesca di pesci gialli e blu che non si vedeva più niente… Credo che il mio cervello e tutte le sue funzioni razionali si siano fermate in quel momento. L’immagine è viva come se fosse accaduto oggi. E poi il secondo pesce che ho visto è stato un pesce angelo imperatore e subito dopo una tartaruga e tantissimi altri pesci colorati di cui non conoscevo il nome… Quel giorno ho capito quanto sarebbe stata speciale la mia avventura maldiviana e la prima cosa che ho fatto è stato comprare i libri che mi avrebbero insegnato tutto di quel mondo. All’epoca esistevano solo i libri di Helmut Debellius che avrei imparato a conoscere religiosamente in poco tempo.
Com’erano le Maldive in quegli anni?
In continuo fermento, una vera fucina di idee e progetti. I maldiviani erano un popolo che si stava svegliando da un lungo sonno grazie, anche, alle idee innovative e liberali del presidente Maumoon Gayoom ma, soprattutto, alla crescente domanda turistica. Le Maldive stavano per cessare di essere solo una ghirlanda di isole e isolette sperdute nell’Oceano Indiano e stavano per entrare nei sogni e nei desideri di tutte le persone. Non ne eravamo ancora consapevoli però le cose stavano cambiando e si sentiva nell’aria. Certo non avremmo mai potuto immaginare né internet né la facilità di comunicazione che esiste oggi. Le isole erano collegate da un telefono pubblico dentro una cabina rossa. La usavamo anche noi per chiamare in Italia una volta a settimana. La barca ancorava nella laguna dell’isola e poi si scendeva in spiaggia col dhinghy, erano pochissime allora le isole con porti e pontili. La cabina telefonica era sempre ben visibile, faceva bella mostra di sé. Ma nel caso non l’avessimo trovata, i bambini erano prontissimi a mettere alla prova il loro inglese e indicarcela. Ovunque ci girassimo si sentivano vocine dire “how are you?” o “what’s your name?”. Ma non erano solo i bambini a farlo, anche le donne sedute sotto gli alberi a macinare il curry pronunciavano le stesse frasi, ridendo di se stesse per l’audacia di parlare con i “dhon miu”, gente bianca. Che poi tanto bianchi non eravamo mica con il sole sempre sulla testa. I maldiviani erano molto accoglienti e curiosi, nelle isole più lontane da Malé chiedevano di poter toccare i capelli biondi. Le loro case erano fatte di corallo spaccato e grandi conchiglie, gli unici materiali reperibili in loco. E non avevano porte all’ingresso, solo una tenda. Quando ti chiedevano com’era fatta una montagna o un treno ti rendevi conto che conta molto il luogo in cui sei nato. È stato un bel periodo, di grande formazione umana e culturale.
E le isole?
Beh, a navigare tra isole e lagune ci si sentiva esploratori di mondi fiabeschi, novelli Darwin a bordo del Beagle. La Wattaru, la nostra prima barca, era quasi grande come il Beagle. Alle Maldive c’erano tantissime isole deserte, ancora il Governo non aveva inventato le pic-nic islands e quindi le isole più piccole erano tutte deserte. Dopo ogni mareggiata, le spiagge erano disseminate di conchiglie che nessuno raccoglieva perché non sapevano cosa farsene; coni, terebre, cipree e non era raro trovare un Nautilus, non il sottomarino del capitano Nemo, ma il mollusco cefalopode proveniente dritto dritto dal Paleozoico e considerato estinto per molto tempo. Per mare si incontravano soprattutto i dhony dei pescatori. Si affiancavano alla nostra barca e chiedevano da bere acqua fresca, visto che a casa non avevano il frigorifero l’acqua fresca sembrava fatta con una specie di stregoneria. Noi eravamo sempre pronti a fare amicizia e offrire ciò che avevamo, non che fosse tanto. L’amicizia poi pagava sempre quando restavi senz’acqua dolce, niente dissalatori a quei tempi, e dovevi chiedere al capo villaggio che ti facessero rifornire al pozzo dell’isola. Se eri amico di tale Mohammed o tale Ali (si chiamavano tutti così) la risposta era sempre sì. Quando non pioveva per molte settimane e i pozzi erano asciutti, le isole restavano senz’acqua. Il capo villaggio, in quel caso, doveva rispondere no alla nostra richiesta di rifornimento, perché l’acqua non l’avevano neanche per loro. Quando capitava, in barca eravamo costretti a economizzare il pieno fatto a Malé e farlo durare tutta la settimana. Il rispetto e l’importanza dell’acqua dolce lo impari presto in quelle situazioni.
Sott’acqua invece?
Ah… quando mettevi la testa sott’acqua che fosse solo con maschera e pinne o indossando una bombola, la prospettiva cambiava radicalmente. Il tuffo e il suono delle bolle dall’erogatore erano (e sono) il portale d’accesso per un mondo magico: mante, squali, tartarughe, pesci corallini si muovevano, come ancora oggi, su un fondale multicolore lasciando senza fiato. Mi sono sempre sentita e continuo a sentirmi una privilegiata per gli incontri che ho fatto nella mia vita. Non dimenticherò mai la prima volta che ho sentito il canto delle balene durante un’immersione o il mio primo “enorme” squalo balena incontrato in una pass… E poi c’è sempre stato l’aspetto educativo. Raccontare alle persone ciò che stavano vedendo e perché, è stata una delle spinte più forti di tutti gli anni passati a fare l’istruttrice e la guida subacquea. Anche insegnare le tecniche d’immersione e l’amore per il mare è stato fondamentale per me. Il mio approccio era molto Zen, già allora. Ho sempre creduto che bisognasse entrare in collegamento con il mare e che la respirazione, le sensazioni nel corpo, oltre all’approccio curioso ma rispettoso, fossero indispensabili per imparare ad andare sott’acqua ma andrebbe chiesto ai miei allievi se il metodo funzionava. Ho avuto fantastici allievi, questo posso dirlo e conservo ricordi bellissimi.
Quali sono state le esperienze più forti vissute sott’acqua?
Risalgono a una ventina d’anni fa e sono relative a un luogo preciso nell’atollo di Lhaviyani, la pass di Meyafushi. Avevamo scoperto che vi abitava un grosso gruppo di squali martello. Sono animali molto belli e molto timidi, tendenzialmente si avvicinano al reef all’alba per nutrirsi e il resto del tempo se ne stanno molto fondi. Avevamo fatto molte immersioni in quel punto e conoscevamo abbastanza bene i loro comportamenti: di solito un individuo sentinella si avvicinava a noi, dava un’occhiata e, se il nostro atteggiamento non destava preoccupazione, arrivavano anche gli altri, molte decine di esemplari di Sphyrna lewini. Una mattina con me c’erano solo altre quattro persone, un gruppo molto piccolo e molto affiatato. Pinneggiavamo molto lentamente nel blu, intorno solo il plancton che emetteva una bioluminescenza azzurrina. A un certo punto abbiamo visto risalire lo squalo martello sentinella verso di noi. Io ho allungato il braccio per indicarlo agli altri, senza fare alcun altro movimento o suono. Lui ci è venuto incontro tranquillamente… troppo tranquillamente. Era così tranquillo che si avvicinava sempre di più e al suo passaggio il plancton si spegneva. Noi siamo rimasti immobili a guardare quella bellissima creatura ondeggiare elegantemente nell’acqua. Solo quando ho cominciato a vedere i denti distintamente, ho capito che era davvero troppo vicino, l’istinto mi ha fatto ritrarre il braccio e la mia mano che ancora lo indicava. Lui si è spaventato, ha fatto uno schiocco ed è sparito nel blu. Noi cinque ci siamo guardati con occhi grandi attraverso le maschere, certi che una cosa del genere non sarebbe mai più accaduta. In un’altra occasione avevo portato con me dei ragazzini. Eravamo a meno di venti metri di profondità e poco lontano dal reef. I gruppi di subacquei più esperti erano usciti nel blu a cercare gli squali martello. Io vedevo le loro bolle e potevo distinguere le sagome dei martelli da lontano ma i bambini non li vedevano e ne erano delusi. A un certo punto, senza che ci fosse nessun motivo apparente, tre squali sono saliti da noi, ci hanno girato intorno alla nostra stessa profondità mostrando le loro grandi teste e guardandoci prima con un occhio poi con l’altro… Uno dei bambini si è attaccato alla mia bombola e un altro mi ha preso la mano. Beh, che dire… non so se ero più emozionata io o loro. In barca, dopo, non smettevano di raccontare l’incredibile e pazzesca avventura che avevamo vissuto.
Come si lega tutto ciò con la scrittura?
Scrivere è il mio modo di mettere ordine, di comprendere il senso delle cose della natura e della vita. Dai miei primi libri sulle creature marine ai romanzi, l’obiettivo è sempre lo stesso: capire e conoscere.
E far crescere tua figlia, Carola, in una barca in mezzo all’Oceano Indiano come è stato?
Ah, quella è stata un’altra grande avventura, la più bella forse… Portare Carola sulla schiena, come una delfina col suo piccolo, incontro alla sua prima manta e al suo primo squalo balena è stato emozionante. Lei che indossava una mascherina di plastica, senza pinne perché era troppo piccola e non esistevano della sua taglia era sempre pronta a unirsi “ai grandi”. E poi me la vedo ancora, sempre in prima fila, mentre facevo i briefing o sentirle chiedere a due anni “com’era la corrente in pass?”. Sono ricordi bellissimi e preziosissimi…